Algeri, porto delle rivoluzioni (1)

Il primo festival culturale panafricano

Luglio 1969. Già dalle prime ore del pomeriggio, malgrado la canicola, le strade di Alger la blanche si riempiono di folla. Ogni giorno, e sino all’alba, gli abitanti della capitale le percorrono in tutti i sensi, in un clima di eccitazione ed allegria fuori dal comune. Tra Bab-el-Oued, il quartiere ai piedi della Casbah, e i caffè della Rue Larbi Ben M'Hidi, fino agli stadi e all’ippodromo, famiglie e schiere di marmocchi incontrano l’Africa. Cantano e danzano con artisti e gruppi arrivati dai paesi sahariani, da tutta l’Africa, dal vicino Oriente ma anche dall’Europa e dagli Stati Uniti. Ci sono teatranti, poeti, musicisti, cantanti, danzatori-guerrieri, griots che si avvicendano e più spesso si mischiano sui numerosi palchi montati in tutte le piazze principali, dalla place des Trois Horloges, alla Grande Poste, fino alla piazza del Primo maggio. Gli algerini scoprono, con la loro appartenenza al continente, le loro proprie culture, a cominciare dalla sfilata inaugurale dei cavalieri mozabiti sulla piazza Audin (nella foto di Guy Le Querrec, della storica agenzia Magnum, al suo primo reportage africano). Le ragazze della capitale “belle come dei gabbiani bianchi, coi loro haik e le velette di pizzo” scoprono il jazz portato dai musicisti afroamericani, come Leroy Jones o Nina Simone (in concerto, foto LeQuerrec/Magnum). O Archie Shepp, che scopre la musica tuareg e suona con gli ‘uomini blu’ del deserto. Cortei di ammiratori accompagnano Miriam Makeba, stella delle township sudafricane e algerina d’adozione, alla salle Atlas, appena rinnovata per il festival (durante le prove, foto LeQuerrec/Magnum). ‘Mama Africa’, che vivrà 31 anni di esilio, è qui con suo marito Stokely Carmichael, dirigente afroamericano del primo movimento esplicitamente ispirato al concetto di Black Power. Il Primo festival culturale panafricano afferma con forza l’esistenza di una cultura africana, che è esplicitamente concepita e rappresentata come uno strumento di emancipazione e di resistenza, proprio dei popoli in lotta. “La cultura africana sarà rivoluzionaria o non sarà” è uno degli slogan condivisi dalle delegazioni dei movimenti di liberazione – il Movimento Popular de Liberação de Angola (MPLA), l’African National Congress (ANC, Sudafrica), il Frente de Liberação de Moçambique (FRELIMO), il Partido Africano da Independência da Guiné e Cabo verde (PAIGC) della Guinea Bissau- invitate ad Algeri. Per la città, sui palchi, nei locali in cui si leggono testi di Fanon, nei caffè, nelle sale dell’Hotel Aletti una volta riservate all’aristocrazia ed agli ufficiali francesi, si incontrano personalità come Amilcar Cabral, Agostinho Neto e Mario Pinto de Andrade. C’è Eldridge Cleaver (al ristorante con Stokely Carmichael nella foto LeQuerrec/Magnum), ‘ministro dell’informazione’ in esilio del Black Panther Party (BPP, USA), raggiunto dalla moglie Kathleen, che proprio in quei giorni dà alla luce un bebè, a capo della delegazione di militanti afroamericani, che dispone di un centro accanto a quello dei palestinesi di Al Fatah. Fa furore Emory Douglas, grafico e ‘ministro della cultura’ dei Black Panthers, che vi espone i suoi lavori (galleria sul Guardian). Oltre ai rappresentanti ufficialmente accreditati, tra le molte figure di intellettuali impegnati, idealisti, militanti indipendentisti ed internazionalisti che si fondono alla folla ci sono per esempio il libertario Serge Michel, Jean Sénac, il ‘Pasolini algerino’, e dei militanti corsi. Quest’ultimi li ricorda in Schegge di memoria Rachid Boudjedra, uno dei massimi scrittori algerini viventi; ma va precisato che il Fronte di liberazione della Corsica (FLNC) nacque solo più tardi, mentre all’epoca esisteva il gruppo autonomista Azzione per la Rinascita Corsa fondato dai fratelli Simeoni nel 1967.
Il diluvio umano che sommerge la città è impregnato di fervore e d’euforia, eppure estremamente autodisciplinato, racconta Boudjedra, che paragona il clima del festival alla festa dell’indipendenza del 5 luglio 1962.

Un film introvabile
Lo spirito di quelle giornate straordinarie è raccolto da una troupe che annovera tecnici algerini ed è guidata da William Klein. Klein, fotografo, artista grafico e cineasta, ha girato tra l’altro Loin du Vietnam, film collettivo con Claude Lelouch, Chris Marker, Alain Resnais, Jean-Luc Godard, Joris Ivens e Agnes Varda nel 1967, con interviste a Ho Chi Min e a Fidel Castro (il quale dichiara che una guerra di guerriglia che ha il sostegno del popolo è l’unico potere più forte della nuova tecnologia). Klein realizza il documentario Festival culturel panafricain su incarico dell’ONCIC, l’ente nazionale algerino per il cinema modellato su quello cubano, che lo concepisce come testimonianza della solidarietà con i movimenti di liberazione africani e come rivendicazione di un nuovo ordine mondiale basato sul principio di autodeterminazione dei popoli. Il film rende omaggio alla rivoluzione algerina, con inserti di L’Algérie en flammes di René Vautier e de L’Aube des damnés di Ahmed Rachedi, e alle lotte in corso, con immagini delle rivolte nei ghetti statunitensi e della resistenza nelle foreste africane.
Ad immagine del Panaf’ (abbreviazione con cui il festival viene spesso ricordato), che si impernia sull’ineludibile rapporto tra arte ed impegno politico, il film di Klein fa saltare i confini tra lotta armata, battaglie sociali e cultura dei colonizzati, che si ritrovano così diversi nelle loro espressioni e così uguali di fronte ai loro oppressori. La pellicola è piuttosto rara e spesso dimenticata (non figura in molte filmografie di Klein come quella di IMDB, c’è invece in quella della cinemateca francese) ma copie in buone condizioni sopravvivono ancora in alcune cineteche.

Ritorno al futuro
Algeri, luglio 2009: torna il Panaf! Dopo quarant’anni, il Festival culturel panafricain riapparirà ad Algeri. L’annuncio di un secondo festival è già una sfida alla memoria. Suscita in chi ha rivissuto il Panaf’ 69 attraverso il film, la nostalgia che si può avere per qualcosa che ti hanno tolto, e la delusione davanti al disastro rimasto. Quell’avvenimento era stato vissuto dagli algerini come la fine di un esilio interno, che li aveva separati da loro stessi e dalla loro cultura. Ma poi, dice Ouahiba Aboun Adjali su El Watan, quella cultura ritrovata è stata profanata, assieme alla memoria, la gioia, la dignità e l’avvenire. Dove siete finiti, voi che riempivate le strade di speranza? Chi ha abdicato e lasciato il posto ad amarezza e tristezza?
Un secondo festival che arriva dopo quaranta anni è qualcosa di più di un seguito che fa il bilancio (e la critica necessaria) del primo evento. E non solo perché al giorno d’oggi ogni città di provincia ha i suoi festival (e son tutti internazionali) e li ‘mette sul mercato’. O perché dopo 40 anni il confronto è impossibile, se non fa i conti con tutto quel che è successo, in Algeria come in Africa. È che quel festival fu, o si trasformò in, un evento di enorme portata simbolica e politica che è stato accantonato se non gettato nella pattumiera della storia. Materializzava l’affermazione di un nuovo mondo possibile, contrapposto a quello occidentale, del potere imperiale e coloniale ancora impregnato di fascismo e nazismo. Lo materializzava riunendo gli oppressi che affermavano di avere cultura e memoria proprie, che rivendicavano la propria identità come incompatibile col sistema capitalista, e che per questo erano pronti a dare la vita lottando con ogni mezzo. Il Panaf’ 69 incarna, narrandone la gioia creativa, la speranza come realtà a portata di mano. L’Algeria è uscita vittoriosa dalla guerra di liberazione, il cui aspetto più spettacolare fu l’esperienza di guerriglia urbana ad Algeri e quello più dannato dalla memoria il massacro di manifestanti algerini il 17 ottobre 1961 a Parigi , ma che nell’insieme del paese fece un milione di morti, un’intera generazione sterminata in nome del dominio coloniale. La memoria di questa sofferenza permette agli algerini di riconoscere la sofferenza di altri popoli come propria, di sostenerli, di motivarne la speranza di vittoria e anche di fare la festa con loro. Senz’altro l’organizzazione del Panaf’ 2009 si deve confrontare con ‘ciò che resta’ dello spirito del primo evento.
Ma proprio quello spirito, l’identificarsi per inclusione, ha avuto un effetto anche sui giovani dell’Europa post bellica, che erano incapaci di riconoscersi nel modello di vita imposto dal ‘sistema’ e avevano espresso ciò che pensavano dell’autorità con le rivolte del 1968. Se un mondo radicalmente nuovo è possibile, allora è giusto e doveroso lottare per ottenerlo. La forma di lotta rivoluzionaria privilegiata si appoggiava sulle armi, nei modi della guerra di guerriglia e poi della guerriglia urbana, con costituzione di eserciti di liberazione o di unità clandestine. L’idea che nel cuore della Metropoli si potesse fare lo stesso, prendere le armi contro un potere ed una sociétà ancora profondamente intrisi di fascismo e razzismo, è senz’altro transitata dal porto di Algeri.
L’occasione di riflessione offerta dal prossimo Panaf’ 2009 riguarda, oltre la drammatica storia algerina ed africana degli ultimi quattro decenni, la memoria delle influenze culturali e politiche ‘algerine’ sullo sviluppo della lotta armata nel mondo occidentale.
1- continua

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